Un estratto
Einar guardò l’orologio per l’ennesima volta. Detestava quando la gente non arrivava in orario.
«Vuole ordinare, ora?» la cameriera, una ragazzina magra e piena di lentiggini intenta a masticare un chewingum, si era accostata di nuovo al suo tavolo.
«No, grazie. Sto ancora aspettando una persona.»
La cameriera rispose con un’alzata di spalle e si allontanò.
Einar, sbuffando, si poggiò allo schienale. Il suo cellulare era andato, e non poteva nemmeno chiamare la cliente per sapere se fosse morta. “Quasi tre quarti d’ora di ritardo, cazzo…”
E pensare che si era dovuto alzare all’alba e aveva attraversato in auto quella che a lui sembrava mezza Svezia, per arrivare puntuale all’appuntamento in quel buco di città. Si voltò a guardare verso la finestra: fuori aveva ripreso a nevicare così forte che era difficile distinguere persino i palazzi dall’altra parte della strada. Era ovvio che a quel punto, e per di più con un tempo del genere, non si sarebbe presentato nessuno. Cercando di reprimere l’irritazione, si alzò dal suo posto e si infilò il cappotto.
«’Fanculo» mormorò a denti stretti, rendendosi conto che la cameriera lentigginosa lo stava fulminando da lontano. Ma, considerando che aveva occupato per tre quarti d’ora un tavolo senza consumare niente, suppose che quell’occhiataccia fosse più che meritata. Prese il portafogli e lo aprì, alla ricerca di una banconota da lasciare sul tavolo prima di allontanarsi. “Quante Corone di mancia andranno bene?”
Come se avesse avuto una sua volontà, lo sguardo gli cadde sulla fotografia che teneva, ormai da anni, all’interno del portafogli.
Eva sorrideva, in quella foto. I capelli lunghi e biondi le ricadevano scompigliati sulle spalle; le labbra rosse spiccavano come due petali sulla carnagione chiara.
Einar distolse lo sguardo e si morse l’interno della guancia. Si accorse che una mano gli tremava, così richiuse il portafogli e se la infilò in tasca.
«Signor Ivarsson?» una voce femminile lo riportò alla realtà. Rialzò lo sguardo e i suoi occhi si posarono su un viso di mezza età, segnato però da rughe che sarebbero dovute appartenere a una donna molto più vecchia. «Sono Päivä Saarinen, ci siamo sentiti al telefono l’altro giorno. Mi dispiace se l’ho fatta aspettare, ma sono stata bloccata a causa del tempo.»
Einar ricacciò indietro la smorfia che gli si stava dipingendo in faccia. «Signora Saarinen…» disse, stringendole la mano. «Non si preoccupi, ero appena arrivato.»
Solo dopo che la cameriera ebbe preso le ordinazioni, la signora Saarinen si arrischiò a rivolgergli un timido sorriso di circostanza.
Einar conosceva bene quell’espressione, perché era quella che di solito assumevano i familiari del mutato quando non sapevano come cominciare il discorso spinoso che avrebbero dovuto affrontare. Nonostante cercassero di mascherare la vergogna e la paura, Einar ormai era in grado di riconoscere i pensieri dei suoi clienti.
Inoltre, tanto tempo prima, anche lui aveva provato quegli stessi sentimenti.
«Allora» disse, per rompere il silenzio che si era creato «al telefono mi ha parlato di un mutato, ma non ha voluto aggiungere altro.»
Päivä Saarinen annuì. «Si tratta di Kirsi, mia figlia. È successo due mesi fa» la signora Saarinen parlava svedese con un accento finlandese così forte che Einar aveva paura di non riuscire a capire le parole. «Io e Kirsi ci siamo trasferite da Tampere l’anno scorso, dopo la morte di mio marito. Qui a Falun vive mia cognata, che mi ha aiutata a trovare un nuovo lavoro e a rifarmi una vita. Sa, signor Ivarsson, non riuscivo più a restare a Tampere: avevo troppi ricordi, laggiù.» La donna distolse lo sguardo dal suo. «Purtroppo, per Kirsi è stato molto diverso. Lei è solo una ragazza e io, accecata com’ero dal dolore, non ho pensato a quello che poteva provare. Prima ha perso suo padre, e poi io l’ho sradicata dalla sua vita, portandola qui. Ha finito per odiarmi.»
Einar annuì per educazione, anche se non poté fare a meno di mettersi a tamburellare con le dita sul tavolo.
«Comunque, pur di stare lontana da me, Kirsi ha cominciato a girovagare per la città. Usciva a tutte le ore del giorno e della notte. Ero terribilmente preoccupata, ma lei non voleva starmi a sentire. Anzi, se ne andava di proposito a orari improponibili, pur di farmi stare in pensiero.»
«È normale, a una certa età.»
La signora Saarinen annuì, fissando la tazza di blåbärssoppa che aveva davanti.
«Una notte, però, sono stata chiamata dall’ospedale. Kirsi era stata aggredita da un animale, ed era ferita gravemente» la donna interruppe il suo discorso per asciugarsi gli occhi col polpastrello. «Mi scusi.»
«Si figuri.»
«Quando sono arrivata non mi hanno nemmeno lasciata entrare. Due infermieri del turno di notte erano stati sbranati, e Kirsi era scomparsa.»
«Com’era la luna, quella notte?» domandò Einar.
«Piena» rispose. «È stata Kirsi ad aggredire quegli uomini. Li ha uccisi, capisce? Un sopravvissuto l’ha vista.»
«Capisco.»
La donna scosse la testa. «No, sinceramente non credo che lei possa capire.»
“E tu cosa ne sai?” pensò, ma evitò di risponderle.
«Mi perdoni.» Lo sguardo che Päivä Saarinen gli lanciò sembrava dispiaciuto.
Einar rispose con un’alzata di spalle.
«Il fatto è che non è facile, per una madre, accettare una cosa del genere. Non riesco ancora a credere che Kirsi abbia ucciso delle persone, io… non riesco a credere che sia mutata, che sia successo proprio a lei.» La donna tornò a fissare il blåbärssoppa, poi prese un respiro profondo e continuò: «È per questo che l’ho contattata, signor Ivarsson. Kirsi ha bisogno di essere aiutata, e lei può farlo.»
Einar non riuscì a nascondere la sorpresa. «Aiutarla?» Aveva parlato a voce troppo alta, e alcuni clienti si erano voltati a guardarlo dai loro tavoli. «Signora Saarinen, io non posso aiutare sua figlia. Nessuno può farlo» spostò la sedia un modo da potersi avvicinare un po’ di più alla donna. «Una volta che il contagiato muta, non c’è modo di tornare indietro.»
«Lo so» rispose lei. «Non sono una sciocca, signor Ivarsson, e ho smesso di farmi illusioni molto tempo fa. Niente tornerà più com’era prima. Ma una madre ha il dovere di aiutare la propria figlia, ed è per questo che l’ho chiamata. Se la morte è l’unico aiuto che posso dare a Kirsi, ebbene, glielo darò.» stavolta, la sua voce era chiara e ferma. «La prego, uccida Kirsi per me.»